Un esperimento
Dove sono i bagliori rossastri? Dove le fiamme ardenti di dolore nero? Dove le urla di sofferenza e i lamenti stridenti? Volgo lo sguardo smarrito al cielo, ma non c’è nulla sopra di me, attorno a me.
Nero, vuoto, solitudine. Che cos’è il niente? Niente, non esiste. Non può esistere. Eppure esiste, quaggiù. Qui esiste tutto, persino il niente, l’annullamento di ogni cosa.
L’annullamento di me stesso? No, io non posso essere ridotto a un niente. O forse si?
E perché sono qui? Dove sono? Ci dovrebbero essere nuvole azzurre, canzoni di pace, angeli dorati. E Dio? Dove sei, dov’è Dio? Dovrebbe essere qui accanto a me, dovrebbe avermi accolto, sorridendomi benevolo, aspettandomi da dieci anni. Ma nessuno mi ha accolto. Nessuno mi aspettava, nessuno mi ha abbracciato felice. nessuno. E nessuno è qui con me, ora. Eppure io qui sono già stato, tanti anni fa e non era così, così vuoto: era tutto così pieno, troppo, straboccante di anime dannate e infelici.
Che colpa può avere chi da tutte le colpe, con un viaggio, è stato liberato? Se io sono stato qui, se ho incontrato tutte quelle persone, se io –proprio io- sono stato graziato e liberato, perché sono qui?
Dovrei essere felice e beato. Ho vissuto viaggiato e scritto per essere beato ma non lo sono. Non sono nemmeno dannato. Cosa sono allora? Abbandonato, ignorato. Eclissato in questo solitario intermezzo.
Piuttosto, preferirei essere dannato.
Camminare senza sosta punto da vespe, giacere immerso nella pece bollente, arroventato dalle fiamme o congelato nel ghiaccio.
Tra tutte le pene sgorgate dalla mia piuma, qualsiasi sarebbe meglio di questa condizione, non importa quale, non importa quanto dolore.
Il mio corpo non è mutilato né piange sangue bollente, ma la mia mente lacrima come una marea che infrange gli scogli. Non sono considerato, sono stato gettato come la formica insignificante. E’ vero forse, vero che valgo meno di una qualsiasi anima?
Ora lo sono anch’io. Anche il mio corpo è trasparente e lacerato dai raggi solari, un’ombra del passato e nient’altro. Eppure, la mia mente non è morta; al contrario, è più viva di quando lo ero anch’io. E’ presente, troppo presente, e i pensieri si riversano su di me come dolore bollente.
Vorrei poter non pensare: vorrei che la mia mente si spegnesse ora, liberandomi dalla tela a cui sono invischiato. Vorrei solo poter provare dolore, dolore liquido, senza pensieri, senza accadermi perché stia accadendo proprio questo, proprio a me. Ma io lo so che la risposta dimora dentro di me, so di saperlo eppure non riesco a pensarlo, come se la mia mente fosse ancora incapace, ancora non pronta.
Vorrei poter frugare nel mio corpo, aprire il cervello e cercare una risposta, finalmente; poi giacere in pace con me stesso, ma non posso riappacificarmi con i miei pensieri se non so cosa mi stia accadendo.
Non son più io.
Aiuto. Voglio uscire. Voglio sgusciare da questa gabbia senza pareti, da questa prigione che io stesso sono diventato.
No, no. No. Via, via. Voglio andare via. Voglio scappare, fuggire. Voglio bruciare tra le fiamme.
Io, io che ho amato la mia Firenze e ho fatto tanto per lei. Io che sono stato obbligato ad abbandonarla –sofferenti pianti-. Io che ho espiato le mie colpe prima di morire. E’ proprio questa la mia colpa forse? Il mio peccato è stato redimere i miei peccati? Un viaggio lungo, doloroso, scritto su crude pagine ad inchiostro bruciante. Un viaggio tra la speranza e l’immaginazione. Un viaggio che pensavo mi avrebbe permesso di redimere la mia anima, ma che al contrario sembra essere valso solo come biglietto di sola andata per il dolore eterno.
Ora, forse capisco. Come una luce che si apre nelle tenebre, vedo la mia colpa. La sento. Come se Lucifero in persona la stesse pronunciando a lettere scandite a voce alta.
Superbia.
Riecheggia nelle mie membra trasparenti, risuonando di un fragore assordante che pulsa nelle orecchie.
Superbia.
Brutto, terribile peccato. Ha rovinato re e popolazioni, ha distrutto sogni ed ambizioni, ha invischiato troppi nel petrolio di dannazione. Anche me, anch’io che, stolto, credevo di essermi salvato. Io che nella speranza della salvezza non mi accorgevo di essere il più desolato di tutti.
Superbia.
Io niente nessuno. Reietto dell’umanità, abbandonato anche all’inferno. Perché? Perché? Di chi è la colpa? Mia, solo mia? Quanti altri fecero peggio di me? Quanti? Troppi! E allora cosa ci faccio qui solo e spaesato? Dove sono -ancor le cerco senza capire del tutto- le urla che dovrebbero, attorno a me?
Dove? Dove, perché?
Perché solo io sono punito in questo inferno della mente?
Superbia.
Ancora riecheggia l’eco di una colpa che non riesco a capire del tutto. Ancora riecheggia l’eco della colpa che non riesco a non trovare ingiusta.
La mia opera è un bene, un bene per l’umanità. No, l’umanità non c’entra niente, sono, ero, solo io. Un’opera solo per me, solo per salvarmi per sempre.
Superbia.
Aver potuto pensare di salvarmi con delle lettere inchiostrate; aver potuto pensare di arrivare anche fino a Dio.
Superbia.
Solo ora posso capire e sapere. Solo ora, non posso che giacere abbandonato alla rassegnazione.
Tragedia. Tragica superbia, mai più grande peccato l’umanità commise.